Dottoressa, non riesco a riconoscerlo come mio figlio. È brutto!

La prima volta che mi sono sentita dire queste parole vi assicuro che ho provato un forte brivido lungo tutto il corpo. Ne ho visti molti di bambini nati pretermine e ho presto imparato che le parole di questa mamma erano quelle, molto spesso taciute o dette con vergogna, di tantissime altre mamme che ho conosciuto in TIN.

Il bambino più piccolo che ho visto credo pesasse a mala pena 500 grammi. Cinquecento grammi: la quantità di pasta che la mia mamma cucinava per il pranzo della domenica, una bottiglietta di acqua, un terzo del peso dei più moderni computer.

Se non fossi mai entrata in una TIN avrei pensato che questa mamma fosse rimasta troppo ancorata al bambino immaginario di cui vi ho già parlato ma avendo passato diversi anni nei reparti che accudiscono, e salvano la vita, a questi bambini ho capito appieno quello che mi stava dicendo. Aveva ragione.

La mamma con cui stavo parlando aveva visto il suo bambino per la prima volta dopo 2 giorni dalla nascita, appena si era ripresa dall’intervento urgente che aveva subito per salvarle la vita, era piena di aspettative ed era rimasta scioccata. Pietro era ricoperto da una fitta peluria chiara, aveva le dita palmate, la pelle sottilissima, le palpebre ancora chiuse. Qualsiasi interazione la mamma provasse ad avere con lui, a partire dal semplice alzare la coperta della termoculla, i monitor a cui era attaccato iniziavano a suonare: il cuore di Pietro batteva all’impazzata che sembrava gli uscisse dalle costole che si potevano tranquillamente contare.

Mentre mi raccontava come si sentisse, sentivo tutto il peso delle parole di quella mamma pronunciate con un misto di vergogna e liberazione, e pensavo alla forza che aveva lei, e il suo Pietro, per riuscire a condividere con me, quasi perfetta sconosciuta, quei sentimenti così difficili da collocare e da raccontare a chi una TIN non sa nemmeno cos’è.

Sento che la mia presenza lì, quel giorno e a quell’ora, per questa mamma è stata molto importante. Magari ne avrebbe parlato con qualcun altro, o magari si sarebbe tenuta dentro di lei quella sensazione di rifiuto per tutta la vita. Quel giorno a quell’ora, sì, perché gli psicologi in TIN, quelli che sono dedicati al reparto e che hanno una formazione sulla prematurità, in Italia si contano sulle dita di una mano. Molto è ancora affidato al volontariato o a progetti che le associazioni di genitori finanziano finché ne hanno la possibilità.

Sono contenta di esserci stata e di poter continuare a esserci in un qualche momento della vita di queste mamme ma non posso fare a meno di pensare a tutte quelle mamme che si portano dentro il peso immenso di un’immagine che non riescono a elaborare e di emozioni legittime che sono costrette a soffocare.

Ho un grande sogno: che si cominci a considerare che la figura dello psicologo nei reparti di Terapia Intensiva Neonatale sia fondamentale al pari di quella del neonatologo, dell’infermiere, dell’operatore socio sanitario e di tutte le moltissime figure professionali che possono sostenere lo sviluppo dell’intera famiglia prematura. So che la strada sarà lunga ma voglio provare a essere parte del cambiamento che vorrei vedere.

Dottoressa, non riesco a riconoscerlo come mio figlio. È brutto!

La prima volta che mi sono sentita dire queste parole vi assicuro che ho provato un forte brivido lungo tutto il corpo. Ne ho visti molti di bambini nati pretermine e ho presto imparato che le parole di questa mamma erano quelle, molto spesso taciute o dette con vergogna, di tantissime altre mamme che ho conosciuto in TIN.

Il bambino più piccolo che ho visto credo pesasse a mala pena 500 grammi. Cinquecento grammi: la quantità di pasta che la mia mamma cucinava per il pranzo della domenica, una bottiglietta di acqua, un terzo del peso dei più moderni computer.

Se non fossi mai entrata in una TIN avrei pensato che questa mamma fosse rimasta troppo ancorata al bambino immaginario di cui vi ho già parlato ma avendo passato diversi anni nei reparti che accudiscono, e salvano la vita, a questi bambini ho capito appieno quello che mi stava dicendo. Aveva ragione.

La mamma con cui stavo parlando aveva visto il suo bambino per la prima volta dopo 2 giorni dalla nascita, appena si era ripresa dall’intervento urgente che aveva subito per salvarle la vita, era piena di aspettative ed era rimasta scioccata. Pietro era ricoperto da una fitta peluria chiara, aveva le dita palmate, la pelle sottilissima, le palpebre ancora chiuse. Qualsiasi interazione la mamma provasse ad avere con lui, a partire dal semplice alzare la coperta della termoculla, i monitor a cui era attaccato iniziavano a suonare: il cuore di Pietro batteva all’impazzata che sembrava gli uscisse dalle costole che si potevano tranquillamente contare.

Mentre mi raccontava come si sentisse, sentivo tutto il peso delle parole di quella mamma pronunciate con un misto di vergogna e liberazione, e pensavo alla forza che aveva lei, e il suo Pietro, per riuscire a condividere con me, quasi perfetta sconosciuta, quei sentimenti così difficili da collocare e da raccontare a chi una TIN non sa nemmeno cos’è.

Sento che la mia presenza lì, quel giorno e a quell’ora, per questa mamma è stata molto importante. Magari ne avrebbe parlato con qualcun altro, o magari si sarebbe tenuta dentro di lei quella sensazione di rifiuto per tutta la vita. Quel giorno a quell’ora, sì, perché gli psicologi in TIN, quelli che sono dedicati al reparto e che hanno una formazione sulla prematurità, in Italia si contano sulle dita di una mano. Molto è ancora affidato al volontariato o a progetti che le associazioni di genitori finanziano finché ne hanno la possibilità.

Sono contenta di esserci stata e di poter continuare a esserci in un qualche momento della vita di queste mamme ma non posso fare a meno di pensare a tutte quelle mamme che si portano dentro il peso immenso di un’immagine che non riescono a elaborare e di emozioni legittime che sono costrette a soffocare.

Ho un grande sogno: che si cominci a considerare che la figura dello psicologo nei reparti di Terapia Intensiva Neonatale sia fondamentale al pari di quella del neonatologo, dell’infermiere, dell’operatore socio sanitario e di tutte le moltissime figure professionali che possono sostenere lo sviluppo dell’intera famiglia prematura. So che la strada sarà lunga ma voglio provare a essere parte del cambiamento che vorrei vedere.

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