Chi ha seguito qualche mia formazione sa che dedico sempre del tempo a parlare di quanto è importante scegliere i termini giusti della comunicazione. Pensate che da alcune parole pronunciate in tutta fretta inizia il senso di colpa di una mamma prematura.

“Signora, ha rotto le acque. Il suo bambino nascerà oggi”. Non ci si pensa, si è concentrati sull’azione e sul salvare la vita e questo è sicuramente lodevole, ma siamo sicuri che “Lucia ha rotto le acque” e non che “Lucia, si sono rotte le acque”? Può sembrare una sottigliezza ma non lo è.

Le lacrime di Lucia che chiama il marito e riferisce che HA rotto le acque e deve correre in ospedale perché il loro bambino verrà fatto nascere oggi non le dimenticherò facilmente. I suoi occhi lucidi che cercano di dare un senso a quello che sta succedendo a lei e al suo bambino la portano a rimuginare senza sosta su quella frase che entra dentro e resta… qualunque sia il finale della storia. “Ho rotto le acque. Ho sicuramente sbagliato qualcosa. Non dovevo cambiare le lenzuola ieri. Non avrei dovuto mangiare i peperoni. Non dovevo nemmeno andare dalla parrucchiera. Ho rotto le acque, ed è tutta colpa mia”.

Ho conosciuto molti medici e infermerie che hanno avuto a che fare con Lucia e hanno saputo usare le parole giuste al momento giusto ma su quel senso di colpa Lucia ci ha poi lavorato a lungo con un percorso psicologico.

Lucia era una donna adulta, sostenuta da un marito e da una famiglia che hanno saputo cogliere la sua difficoltà ma non sempre è così, cosa accade se non si usano le parole giuste con i bambini o con gli adolescenti?

Vedevo Irene da un po’ ma quel giorno era più silenziosa del solito, stavamo facendo un compito di matematica per lei molto difficile ma percepivo che il suo comportamento non era il solito. Alza gli occhi dal quaderno e mi dice: “Francesca, mi hanno detto che sono un DSA”. Ho sentito in quelle parole tutto il peso di una ragazzina di 12 anni nel pieno della sua adolescenza che oltre a tutti i cambiamenti fisici, ormonali e relazionali a cui deve far fronte non sa come collocare questo “essere DSA” che le ha detto un’insegnate.

Irene ha 12, i capelli scuri e la carnagione olivastra, è timida ma quando sorride è magnetica, le sorridono perfino gli occhi. Le piace giocare a tennis e adora il gelato alla fragola. Questa è Irene. Che poi Irene abbia un DSA è un altro discorso, ma credetemi che farsi dire cosa la stava mettendo così in crisi in quel periodo e comprendere che era tutto partito da una parola sbagliata, detta senza pensarci, non è stato affatto facile.

Comunicare bene richiede attenzione, impegno e allenamento: non è da considerarsi “la ciliegina sulla torta” ma la farina necessaria all’impasto senza la quale la torta non riuscirà.

Chi ha seguito qualche mia formazione sa che dedico sempre del tempo a parlare di quanto è importante scegliere i termini giusti della comunicazione. Pensate che da alcune parole pronunciate in tutta fretta inizia il senso di colpa di una mamma prematura.

“Signora, ha rotto le acque. Il suo bambino nascerà oggi”. Non ci si pensa, si è concentrati sull’azione e sul salvare la vita e questo è sicuramente lodevole, ma siamo sicuri che “Lucia ha rotto le acque” e non che “Lucia, si sono rotte le acque”? Può sembrare una sottigliezza ma non lo è.

Le lacrime di Lucia che chiama il marito e riferisce che HA rotto le acque e deve correre in ospedale perché il loro bambino verrà fatto nascere oggi non le dimenticherò facilmente. I suoi occhi lucidi che cercano di dare un senso a quello che sta succedendo a lei e al suo bambino la portano a rimuginare senza sosta su quella frase che entra dentro e resta… qualunque sia il finale della storia. “Ho rotto le acque. Ho sicuramente sbagliato qualcosa. Non dovevo cambiare le lenzuola ieri. Non avrei dovuto mangiare i peperoni. Non dovevo nemmeno andare dalla parrucchiera. Ho rotto le acque, ed è tutta colpa mia”.

Ho conosciuto molti medici e infermerie che hanno avuto a che fare con Lucia e hanno saputo usare le parole giuste al momento giusto ma su quel senso di colpa Lucia ci ha poi lavorato a lungo con un percorso psicologico.

Lucia era una donna adulta, sostenuta da un marito e da una famiglia che hanno saputo cogliere la sua difficoltà ma non sempre è così, cosa accade se non si usano le parole giuste con i bambini o con gli adolescenti?

Vedevo Irene da un po’ ma quel giorno era più silenziosa del solito, stavamo facendo un compito di matematica per lei molto difficile ma percepivo che il suo comportamento non era il solito. Alza gli occhi dal quaderno e mi dice: “Francesca, mi hanno detto che sono un DSA”. Ho sentito in quelle parole tutto il peso di una ragazzina di 12 anni nel pieno della sua adolescenza che oltre a tutti i cambiamenti fisici, ormonali e relazionali a cui deve far fronte non sa come collocare questo “essere DSA” che le ha detto un’insegnate.

Irene ha 12, i capelli scuri e la carnagione olivastra, è timida ma quando sorride è magnetica, le sorridono perfino gli occhi. Le piace giocare a tennis e adora il gelato alla fragola. Questa è Irene. Che poi Irene abbia un DSA è un altro discorso, ma credetemi che farsi dire cosa la stava mettendo così in crisi in quel periodo e comprendere che era tutto partito da una parola sbagliata, detta senza pensarci, non è stato affatto facile.

Comunicare bene richiede attenzione, impegno e allenamento: non è da considerarsi “la ciliegina sulla torta” ma la farina necessaria all’impasto senza la quale la torta non riuscirà.